Per chi non è mai stato nelle Langhe, questa terra viene associata ai tartufi bianchi di Alba, al buon vino e il buon mangiare. Ma sforzandosi un pò di più vengono in mente le mitiche 44 giornate di Alba e il Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio ( momento di memoria importante sull'epica della Resistenza ). Ad andare un pò più a fondo si incontrano anche le Masche magiche e la tristezza di Cesare Pavese. Adesso le Langhe sono una terra bellissima, ricca ed edonistica...sembra impossibile che la novella "la malora" di Fenoglio possa essere stata ispirata in da una landa anni fà tanto crudele, ma ora dolcissima e ricca.
Ma c'è una cosa che pochi sanno; é che grazie a Cesare Pavese ed ai suoi amici piemontesi che per la prima volta si parla di Jazz e Beat Generation in Italia. Il mito America ( ma non ancora Amerika ) è da sempre nell'immaginario pavesiano e un'interessante tesi è stata sviluppata da Franco Bergoglio di cui pubblico un stralcio importante.
Abbiamo affermato che l'America è un mito che toccò sensibilmente il mondo dell'intellighentia piemontese. Risultato questo dovuto innanzitutto all'opera di traduttore, di saggista, di scrittore e in ultimo di redattore svolta da Cesare Pavese. Nel 1929 Massimo Mila fornì a Pavese il nominativo di un giovane musicista di origine italiana, Antonio Chiuminatto (anche questi piemontese, emigrato negli Stati Uniti dopo essersi diplomato al conservatorio "Giuseppe Verdi" di Torino, per insegnare violino al conservatorio di Chicago) e tra i due si instaurò un notevole scambio epistolare. A lui Pavese si affidò per avere elenchi di libri, con lui discuterà di letteratura americana e anche di jazz. Nel suo saggio "La scrittura sincopata", lo studioso di letteratura americana Giorgio Rimondi mette in luce l'importanza di questo scambio "di culture" tra i due giovani: da un lato Pavese, assetato di conoscenza sulla letteratura e sulla civiltà americana, e dall'altra un giovane musicista dagli interessi artistici plurimi, disposto a condividere con il piemontese le sue conoscenze.
Si legge nella lettera ad Antonio Chiuminatto del 17 aprile 1930: "Non solo avete i ben noti meravigliosi menestrelli del jazz, ma, quel che più conta, avete un mucchio d'altri poeti la cui esistenza qui in Europa nessuno sospetta"24. Il 24 dicembre del 1931 Pavese scrisse entusiasta all'amico: "Sai che ho un giradischi? Ho un assortimento delle più spassose musichette americane che abbia mai sentito [...]. Adesso tu hai un altro compito: se senti di qualche disco americano di hot mandami titolo e compositore e orchestra. Capito? Specialmente blues e saxs". Pavese, seguendo le orme del concittadino Alfredo Antonino, di cui parleremo in seguito, divenne collezionista di musica sincopata e si scontrò con gli inevitabili problemi di reperimento dei materiali, di cui lamentò per lettera all'amico la difficoltà. "Poi quanto ai dischi ho Dinah, il chant of the jungle [...]. Comprerò il Saint Louis Blues seguendo il tuo consiglio. [...]. Mandami le parole di tutti questi dischi, se puoi, con i tuoi commenti, sicuro".
Nel romanzo giovanile "Ciau Masino", pubblicato postumo, datato 1932, Pavese utilizzò il jazz come strumento per un divertissement linguistico: "Sa un fox non è più un valzer e un blues, - disse proprio blus, - non è più una romanza. Veda il jazz... - disse proprio giaz - ...Ah il giazze, il giazze! Ma ne avete già fatte di parole per giazze?". Ironia, uso del gergo e del dialetto, ma conoscenza ed utilizzo della letteratura americana, anche nei suoi toponimi di riferimento, nell'epos che comprende appunto anche il jazz. Nella stessa opera, il protagonista Masino propone una lirica: "Il blues dei blues": "Il male cominciò con me seduto/ sul sofà e la ragazza che cantarellando scendeva/ a rimettere un disco dei soliti - un blues./ Erano cose gaie d'America, anche i blues/ ma sentirli ripetere - sempre gli stessi -/ e vederli ripetere, sempre, dalla medesima mano".
Con un notevole salto temporale Rimondi collega questa lirica all'ultima composta dal poeta nel 1950, pochi mesi prima della tragica morte, "Last blues, to be read some day": il blues: filo rosso per interpretare il mal de vivre pavesiano. Nelle liriche scritte da Pavese il blues ed il jazz dominano però anche la raccolta di poesie "Blues della grande città", datate 1929 e dunque agli inizi della corrispondenza con Chiuminatto.
Dello stesso avviso è lo studioso di letteratura Marziano Guglielminetti, che, nell'introduzione alle poesie, scrive che "Last blues" è "un congedo da non ricondursi ai 'Blues della grande città', concepiti prima di 'Lavorare stanca', quando il rapporto con l'America era sostanzialmente vitale, in specie dal punto di vista linguistico". Lo stesso Guglielminetti scrive di questa raccolta di poesie che dietro si scorge la città moderna: "Un po' meno cupa e proletaria di quella già descritta, 'stracittadina' a suo modo (compaiono i grattacieli, si ode un saxofono)". Vale la pena citare alcune strofe della lirica che forse più di altre utilizza il jazz come sapore, ingrediente fondamentale di una Torino che Pavese - per dirla con D'Orsi - vuole cosmopolita e che si muove al ritmo delle suggestioni americane: "Tutta l'anima mia/ rabbrividisce e trema e s'abbandona/ al saxofono rauco./ È una donna in balia di un amante, una foglia/ dentro il vento, un miracolo,/ una musica anch'essa".
Il titolo del componimento è "A solo, di saxofono". Non mi addentro negli aspetti più squisitamente letterari della lirica, poiché in questa sede stiamo tentando di ripercorrere solamente alcuni momenti della storia della Torino degli anni trenta, tuttavia credo si possa individuare un duplice utilizzo della musica e del sassofono che ne è l'emblema. Da un momento narrativo puramente descrittivo - la lirica parla di un a solo di sassofono - si passa ad una trasposizione dell'uso dell'a solo jazzistico come procedimento letterario. Artificio che, a partire dallo "scrivere bop" di Jack Kerouac avrà anche una sua codificazione e cristallizzazione come tecnica letteraria in terra d'America. Non si vuole qui esaltare la figura di Pavese come quella di un precursore, si intende solamente evidenziare l'uso più "sensibile" ed attento del topos jazzistico da lui proposto rispetto alla letteratura ed alla saggistica del periodo in parola. In un altro componimento della stessa raccolta, intitolato "Jazz melanconico", il fascino e la presenza della musica sono filtrate e trasposte in lirica senza riferimenti diretti, se non per il titolo: "Ascoltare nel cuore/ le passioni remote,/ ascoltarle salire nella notte/ sul profumo umidiccio della terra./ Una vegetazione sconosciuta/ di desiderio, chiusa in questo cielo/ di buio e di silenzio".
Il jazz qui opera sul poeta a livello di stato d'animo, quello che viene definito nelle musiche jazz del periodo il mood: le passioni interiori si fondono con il paesaggio esteriore che circonda l'individuo. Certamente il jazz è presente anche in altre opere di Cesare Pavese, sovente - come accade ne "Il compagno" - come colore locale, per descrivere una atmosfera. Qui il jazz figura con il ruolo di comparsa, come musica da ballo nelle sale della Torino fascista degli anni trenta, descritta da Pavese nel romanzo.
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Dopo lo spartiacque profondo della guerra, la passione per il jazz e per la letteratura sarà una delle costanti dell'opera di una scrittrice, traduttrice e giornalista come Fernanda Pivano, che muoverà i suoi primi passi proprio a Torino sotto l'influsso dell'amico Pavese e del filosofo Abbagnano. E proprio la Pivano traghetterà la visione di un'America ribelle e romantica dagli anni sessanta fino ad oggi.
estratto di un più ampio scritto su [ www.storia900bivc.it/pagine/editoria/bergoglio200.html ]
questo blog fa cagare
RispondiEliminahai ragione
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