Si può essere liberisti, neri, socialisti, rossi, libertari, berlusconiani e non. Si può essere tutto (soprattutto per noi più che quarantenni), ma non dobbiamo essere irriconoscesti a RivistaA. Da più di quarant'anni un monolite libero nel conformismo giornalistico. Stampa di sinistra (snob) e di destra (borghese), televisione convenzionale e non, conservatrice, opinion leader strapagati e piagnoni e anchorman oscurantisti e senzaopinione...tutto questo è stato il mondo dell'informzione nel nostro paese, antagonista tra loro, ma del tutto non interessato ad informare e rappresentare gli interessi reali della gens del nostro paese.
Almeno RivistaA l'ha fatto. Un pilastro nel mondo dell'antagonismo, senza mai scadere nell'eccitazione per la violenza, anzi, incentivando i movimenti pacifisti a diffondere, con i loro comportamenti responsabili , pratiche non-violente.
Ebbene, dopo 40 anni un numero speciale di 256 pagine ne celebra l'avventura. Che dire...supportatelo, compratelo, diffondetelo.
Tra i collaboratori che celebrano questi quarantanni ho selezionatio per questo mio blog lo scritto di Marco Pandin, sarà perchè quasi mio coetaneo, ma anche perchè a lui devo - in un certo qual modo -i l primo contatto con il [bel ] mondo del punk dei Crass e dei Franti. [ visitate il suo catalogono on line Stella*nera].
Ecco di seguito parte del suo intervento su RivistaA#358 [ qui l'intero articolo]
È stato grazie ad Elis che ho letto la A/Rivista. Stava in bella mostra nella vetrina di Utopia 2, piccola libreria anarchica veneziana dove non serviva la scusa degli acquazzoni improvvisi per trovare rifugio sulla strada tra piazzale Roma e l’università. Era il novembre 1976, diciannove anni compiuti da un mese, già annidato in testa un sentimento di insofferenza inspiegabile a parole per le cose cosiddette normali, quelle ritenute più adatte ai ragazzi della mia età, fossero la musica o le letture o la rassegnazione per la caserma. Suonavo in un gruppo che faceva della roba proprio strana e indefinibile, e bazzicavo da tempo in una radio libera. A me piacevano Area e Stormy Six, gli Henry Cow e John Fahey, che a buona parte dei miei amici facevano schifo. Ero andato proprio fuori di testa per i poeti beat e l’Antologia di Spoon River, quando le letture più diffuse erano Tex e Zagor e Lotta Continua e il Quotidiano dei Lavoratori. Alla visita di leva, unico tra tutti i miei amici e compagni di scuola, avevo presentato una dichiarazione di obiezione di coscienza che mi avrebbe causato parecchi fastidi. Avevo diciannove anni, dicevo. Mestre e Venezia e Marghera mi stavano strette addosso, e avrei voluto per me una vita perennemente in viaggio, non importa dove: il Salento, Londra, Capo Nord, la California, o le porte del cosmo che stanno su in Germania. E invece ho mollato l’università dopo un anno e cinque soli esami perché non avevo un soldo e non avevo il coraggio di chiederne ai miei, così sono andato a lavorare. Ho fatto un po’ di tutto, dal manovale in fabbrica al fattorino in giro senza orario, al cassiere in un supermercato. Un giorno mi offrono di partecipare a un corso: quattro mesi tra Milano e Roma, se passi le selezioni ti prendono in prova e poi se gli vai bene ti danno il posto fisso. A raccontarle oggi sembrano storie d’altri tempi: il posto fisso, l’erba piantata nell’orto dietro casa, le autoriduzioni ai concerti, le manifestazioni con le bandiere dove tutt’attorno a te c’erano altri ragazzi, a migliaia. Insieme a urlare, a ridere, a fare casino. Erano anni lenti, senza telefonini, senza internet, senza soldi. La televisione non la guardavamo praticamente mai: la vita era in strada, in piazza. Erano anni di vinile e nastro magnetico. Anni di ciclostile e scritte veloci sui muri con lo spray, di teatro precario e concerti raccogliticci. C’è stato poi il punk, e col punk l’accorgersi che certe idee sballate in testa ti potevano venire anche se abitavi tra i palazzoni grigi e l’erba malata alla periferia dell’impero, anche se eri costretto a nascondere per buona parte della giornata la tua creatività dietro una tuta da lavoro. Ho smesso di suonare e ho messo in piedi una fanzine, poi una piccola etichetta discografica indipendente. [ continua]
Ebbene, dopo 40 anni un numero speciale di 256 pagine ne celebra l'avventura. Che dire...supportatelo, compratelo, diffondetelo.
Tra i collaboratori che celebrano questi quarantanni ho selezionatio per questo mio blog lo scritto di Marco Pandin, sarà perchè quasi mio coetaneo, ma anche perchè a lui devo - in un certo qual modo -i l primo contatto con il [bel ] mondo del punk dei Crass e dei Franti. [ visitate il suo catalogono on line Stella*nera].
Ecco di seguito parte del suo intervento su RivistaA#358 [ qui l'intero articolo]
È stato grazie ad Elis che ho letto la A/Rivista. Stava in bella mostra nella vetrina di Utopia 2, piccola libreria anarchica veneziana dove non serviva la scusa degli acquazzoni improvvisi per trovare rifugio sulla strada tra piazzale Roma e l’università. Era il novembre 1976, diciannove anni compiuti da un mese, già annidato in testa un sentimento di insofferenza inspiegabile a parole per le cose cosiddette normali, quelle ritenute più adatte ai ragazzi della mia età, fossero la musica o le letture o la rassegnazione per la caserma. Suonavo in un gruppo che faceva della roba proprio strana e indefinibile, e bazzicavo da tempo in una radio libera. A me piacevano Area e Stormy Six, gli Henry Cow e John Fahey, che a buona parte dei miei amici facevano schifo. Ero andato proprio fuori di testa per i poeti beat e l’Antologia di Spoon River, quando le letture più diffuse erano Tex e Zagor e Lotta Continua e il Quotidiano dei Lavoratori. Alla visita di leva, unico tra tutti i miei amici e compagni di scuola, avevo presentato una dichiarazione di obiezione di coscienza che mi avrebbe causato parecchi fastidi. Avevo diciannove anni, dicevo. Mestre e Venezia e Marghera mi stavano strette addosso, e avrei voluto per me una vita perennemente in viaggio, non importa dove: il Salento, Londra, Capo Nord, la California, o le porte del cosmo che stanno su in Germania. E invece ho mollato l’università dopo un anno e cinque soli esami perché non avevo un soldo e non avevo il coraggio di chiederne ai miei, così sono andato a lavorare. Ho fatto un po’ di tutto, dal manovale in fabbrica al fattorino in giro senza orario, al cassiere in un supermercato. Un giorno mi offrono di partecipare a un corso: quattro mesi tra Milano e Roma, se passi le selezioni ti prendono in prova e poi se gli vai bene ti danno il posto fisso. A raccontarle oggi sembrano storie d’altri tempi: il posto fisso, l’erba piantata nell’orto dietro casa, le autoriduzioni ai concerti, le manifestazioni con le bandiere dove tutt’attorno a te c’erano altri ragazzi, a migliaia. Insieme a urlare, a ridere, a fare casino. Erano anni lenti, senza telefonini, senza internet, senza soldi. La televisione non la guardavamo praticamente mai: la vita era in strada, in piazza. Erano anni di vinile e nastro magnetico. Anni di ciclostile e scritte veloci sui muri con lo spray, di teatro precario e concerti raccogliticci. C’è stato poi il punk, e col punk l’accorgersi che certe idee sballate in testa ti potevano venire anche se abitavi tra i palazzoni grigi e l’erba malata alla periferia dell’impero, anche se eri costretto a nascondere per buona parte della giornata la tua creatività dietro una tuta da lavoro. Ho smesso di suonare e ho messo in piedi una fanzine, poi una piccola etichetta discografica indipendente. [ continua]
Bel anniversario, concordo con te.
RispondiEliminaBel post e lunga vita a Rivista anarchica
RispondiEliminaAndrea Hack